Cassazione Civile, Sez. III, 3.3.2023, n°6384
Al fine di comprendere il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte, è necessaria una breve disamina dei fatti di causa.
Con atto di citazione, due creditori hanno convenuto in giudizio una società consortile – dichiarata fallita in corso di giudizio – e i suoi soci per ottenere declaratoria di inefficacia, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2901 c.c., della delibera adottata dall’assemblea straordinaria modificativa dello statuto sociale. In particolare, la tesi attorea si fondava sulla lesività della modifica statutaria, a danno dei creditori.
Sia il Tribunale che la Corte di Appello competenti, hanno accolto l’actio pauliana, dichiarando inefficace la delibera assembleare. Di avviso contrario la Suprema Corte.
Con riferimento al primo motivo, la Suprema Corte ha ritenuto non esperibile l’azione pauliana avverso la delibera modificativa dell’atto costitutivo per una motivazione meramente “genetica“: lo statuto e le delibere di modifica sono considerati atti organizzativi della persona giuridica, della sua struttura e dei rapporti con i soci (i.e. “atti endosocietari“), ma non possono essere considerati atti dispositivi, in quanto per “dispositivo dovrebbe qualificarsi l’atto che impegna il patrimonio del debitore (Cass. 11051-2009)”. Ne deriva che tale considerazione rende assolutamente lampante l’insussistenza del presupposto oggettivo dell’azione revocatoria.
Al medesimo epilogo si arriva con riferimento al presupposto soggettivo in quanto “nella formazione della volontà della persona giuridica mediante la delibera assembleare sussisterebbe una “tensione dialettica” tra il fatto che la delibera “appartiene” alla persona giuridica per imputazione organica – e perciò vanta un’efficacia obbligatoria ex art. 2377, primo comma, c.c., per tutti i soci – e il fatto che la formazione viene raggiunta attraverso il principio maggioritario, “mediante i quorum costitutivi e deliberativi fissati dalla legge”, cosicché l’unico atto di espressione della volontà si “distacca” completamente da chi ha votato a favore di tale delibera”. Nello specifico, la Suprema Corte rileva l’impossibilità di attribuire la scientia decoctionis ad un’entità (i.e., l’organo assembleare, seppur composto da persone fisiche), e non alla singola persona fisica che compie l’atto di disposizione del patrimonio che s’intende revocare.
In conclusione, i giudici di legittimità hanno enunciato il seguente principio di diritto: “l’azione pauliana di cui agli artt. 2901 ss. c.c. non può essere esercitata nei confronti di atti endosocietari posti in essere da società di capitali, anche consortili, rappresentati da delibere modificative dello statuto, tali atti non avendo effetti esterni in termini di incidenza sulla garanzia patrimoniale generale, bensì essendo compiuti unicamente per la gestione dell’attività del soggetto giuridico, e sussistendo d’altronde nella normativa societaria strumenti specifici che ne presidiano la legittimità, mentre l’azione pauliana è comunque esercitabile nei confronti degli atti esterni delle suddette società giuridicamente personalizzate”.